Sono lieto e grato di aver ricevuto il Premio Speciale del 13° Premio Internazionale di Poesia Inedita "I Colori dell’Anima" dall’Associazione Mondo Fluttuante e dal Presidente Lamberto Garzia. Desidero ringraziare di cuore l’organizzazione, la giuria e tutti coloro che hanno reso possibile questo riconoscimento, valorizzando la mia poesia. Un grazie speciale alla splendida città di Savona per ospitare questo evento il 25 ottobre 2025.
Di seguito pubblico le tre poesie selezionate dalla giuria:
"Un altro posto c’era, c’è, ci sarà" ;
"Ventisei febbraio" ;
"Scomparsi".
Un altro posto c’era, c’è, ci sarà
I
In questa casa, ancora le mie mani s’illuminano
e m’abbagliano quando riescono a raggiungere
non solo i tuoi tondi fianchi
ma la fugace certezza d’averti toccato sin nell’anima
e poi ci baciamo, intrecciando le nostre lingue
al ritmo frenetico delle cicale,
al ritmo della notte afosa che pare tropicale,
proprio come la prima in cui c’incontrammo
in cui io respiravo forte la felicità
e niente ancora mi faceva male
né spalle o gambe, né testa o petto.
E d’improvviso m’è di nuovo possibile
uscire in strada e camminare con te
con in mente solo il tuo nome forestiero,
senza provare fastidio nel vederlo scritto male
sul citofono e sulle lettere nella cassetta.
II
Vaghiamo camminando sul corso vecchio
tra le botteghe di alimentari, nei minuscoli bar
e nei claustrofobici ristoranti
dove si mangia male, malissimo
ma c’è sempre gente che mangia, si abbuffa
e cammina, come quelli là fuori
che formano la massa di anime
che la sera dà vita al viscido verme
che si snoda per centinaia di metri
come quelli là che da tempo evitano gli incontri,
che si guardano tra loro senza guardarsi
perché a loro non serve a nulla,
poiché già riconoscono il passo dei loro simili:
il claudicare lamentoso della vedova,
che torna dalla messa dell’avemmaria, rassegnata
il lieve passo della fiera ragazza laureata
quella destinata alla solitudine dalla morte
il tacchettio arrogante dell’avvocato rampante
che calca sul selciato per nascondere la zoppia
il passo felpato dello scansafatiche benestante
quello destinato all’irrilevanza dalla morte.
III
È ancora tempo di camminare insieme,
andare su e giù per il corso, noi due
ebbri di gioia e alcol, oltre la mezzanotte
dove il frastuono della folla e della musica è assordante
tanto che non ci resta che baciarci e camminare,
camminare e baciarci, che anche le lingue camminano,
e tutta quella gente che non ci guarda,
come se fossimo fantasmi, come se non fossimo lì,
perché quelli là non ci riconoscono come loro pari,
siamo turisti pur abitando nello stesso comune
sempre più ebbri e sempre meno notte,
con la città che quasi albeggia e noi che camminiamo
perché il nostro amore è insonne, e scambiarci
un paio di sguardi basta per farci andare ancora avanti.
IV
Cammineremo finché le sedie saliranno sopra i tavoli,
finché dovrai partire di nuovo su un autobus
del quale guarderò il solo finestrino dove sarai seduta.
Poi le luci rosse dell’autobus s’allontaneranno,
con te dentro, e senza più camminare,
sarai sempre più lontana, lontanissima da me,
fino a sparire su Viale Parco
e io tornerò a casa camminando senza fretta,
sapendoti ormai irraggiungibile, dormirò
e poi mi sveglierò con un passo nel sogno
e l’altro sul corso vecchio di stanotte,
ma non avrò voglia di uscire,
metterò il chiavistello alla porta,
perché nessuno possa rubare
ciò che di te è rimasto ancora in casa.
V
Ma poi m’abbaglierà il ricordo dei tuoi tondi fianchi
e della fugace certezza d’averti toccato sin nell’anima
e dei baci che ci intrecciarono le lingue
al ritmo frenetico della notte appena trascorsa insieme
e niente mi farà male, né spalle o gambe, né testa o petto
e d’improvviso mi sarà possibile uscire in strada
di nuovo con in mente solo il tuo nome forestiero,
senza più provare fastidio nel vederlo scritto male
sul citofono e sulle lettere nella cassetta
e vagherò solo, camminando sul corso vecchio
tra le botteghe di alimentari, nei minuscoli bar
e nei claustrofobici ristoranti
dove si mangia male, malissimo
ma c’è sempre gente che mangia, si abbuffa e cammina.
Ventisei febbraio
Alle vittime del naufragio di Cutro
I
Oggi, nel giorno dell’anniversario, la tempesta v’invoca ancora,
con la rabbia del suo respiro vi reclama e la sua furia
fagocita l'incertezza che sfugge all’umana sapienza.
Di quelle onde che udivi da lontano mentre già dondolavi
e dondolando ancora i tuoni ti scuotevano e ti cullavano
e mai tua madre avrebbe immaginato che v’affogassero
e che l'abisso vi catturasse col suo nervo salato.
Non potevi vedere i venti che scendevano a punire le acque
né sentire nelle onde la paura pregna di secoli di orrori
né vedere la schiuma Ionia colma della sua irreparabile tristezza
perché eri ancora in fasce, Alì, non ancora Mohammad.
II
Ma quale azzurro mare, ma quale placido mare!
Che è un mare tempestoso che s’abbatte contro petti e visi
e la sua bocca invece di donare sorrisi, s’apre in fauci e zanne.
Oh tu mare che seduci sollevando la tua placida sottoveste
mentre sotto la tua pelle liscia accresci l'altra onda,
lontano nella tua vuota elastica intrepidezza
e sollevi la tua eterna indifferenza agli uomini, e ruggisci
contro le celibi sabbie rosee della spiaggia, e dietro, dietro,
ne prepari un’altra che arriva per dar sfogo ai tuoi fermenti
a dare forma al tuo odio: una coltre di schiuma che si spande
in una torre bianchissima, tempestata di urgenze, e si erge
a effimero monumento acquatico della tua furia sfrenata.
III
Sotto cui, tu giacesti a pancia in giù, con accanto tua madre
già esanimi, all’arrivo dei generosi paesani, unici soccorritori.
E senza nome, ti seppellirono sotto al triangolo di Pitagora
mentre la tua genitrice riposa sotto il cielo stellato di Kant
per l’eternità separati dall’onda gelida della ragione
che mai s’è placata e mai si placherà davanti alle tragedie
riducendo tutta la migrazione a meri calcoli d’esodo
senza mai cogliere il mistero d’amore che alla sapienza sfugge.
Scomparsi
I
Vestiti di novembre, pesanti di freddo,
vengono verso casa tua, portando il pianto,
ma le lacrime si perdono nella penombra, all’alba
tra cespugli che nascondono il tuo passo.
Sei sfuggito al giorno, lasciando un ricordo,
che ora è un’ombra carica di solitudine
e ha inghiottito il nostro passato,
assieme al tuo nome in una storia di lupara,
tra le pietre mute del pantheon delle ‘ndrine.
Perché nel loro bacio non c’è salvezza?
Perché no? Perché qui la terra si spacca?
Chi risponde? Dio o l’oscurità?
II
È buia questa tua casa abbandonata,
è la rovina delle nostre rovine.
Un tempo c’era luce, e quella luce eri tu,
che tenevi le mani intrecciate pregando
tra queste mura che erano il tuo tempio,
parole che ora sono un’eco che svolazza,
una voce in cerca della sua gola
che canta sotto un nero riflettore.
III
Un fischio nelle orecchie ti annunziò
l’ora della cavalcata. Uno schiaffo inatteso
in pieno volto, che ti spezzò i denti
per il pesante urto, contro la tua spalla
carne aperta e occhi spalancati,
mani ferme nel vano gesto d’afferrare
il cielo vuoto, senza nessuno a guardarti.
Perché apristi il cuore alle pene altrui?
E attraversasti la strada, cieco, senza guardare?
Nel paese dal cielo limpido, che si squarciava
solo per brevi istanti, e poi tornava ai suoi affari
dove qualche orecchio si tese al tuo grido muto,
ma volle scambiarlo per un acufene.
IV
Le tue mani furono date in pasto ai maiali,
soddisfacendo l’istinto più vile di vendetta.
Nessuno avrebbe dovuto negare alle tue spoglie
la tomba davanti a cui inginocchiarsi.
Il camposanto attende, e nel frattempo accoglie,
le preghiere di chi ancora cerca la tua anima
d’improvviso un acuto stridio rompe il vetro dell’agonia
il gallo nero con la cresta rossa urla sopra la collina
si squarcia la gola per far nascere un altro giorno.
I miei morti, i tuoi, i nostri morti, dormono,
ma alcuni sono insonni privati del loro ricettacolo terreno.
Il sole alza un dito, e il mondo s’inginocchia,
al dì dei defunti, pronto alla sentenza.
La luce ci avvolge, tutti, anche i colpevoli
in un candido e umido lenzuolo di calore,
e la zanzara del tempo nell’orecchio ronza
e scandisce gli stessi minuti, per tutti, sempre.
